di Valentina Musatelli
La Terra che ci ospita è ammalata, da molto tempo ormai ci chiede aiuto, ma noi ci ostiniamo a non ascoltare. Non è cattiveria, è mancanza di consapevolezza. Tutto questo mi ricorda quando da piccola mi lamentavo di avere il mal di pancia e la mamma mi rispondeva “su dai, non fare i capricci, è tardi e devi andare a scuola”. Io il mal di pancia ce l’avevo davvero. E noi, oggi, siamo come la mamma, che pur amando il suo bambino non capisce che lui sta dicendo la verità, troppo indaffarata per ascoltare, presa dai suoi mille impegni, dal lavoro, dalle faccende, preferisce liquidare tutto con un’alzata di spalle e con la convinzione che sia solo una banale scusa. Forza, è tardi, non abbiamo tempo. Noi siamo come quella mamma, che non ha tempo di fermarsi e capire cosa c’è che non va. Il mondo è ammalato e noi non ce ne curiamo, come fosse un mal di pancia che passerà da sé. Ma se invece quei ripetuti dolori fossero stati solo un sintomo di qualcos'altro? Quanto tempo e quante altre invocazioni di aiuto ignoreremo prima di renderci conto che il male non passerà da sé, che forse nemmeno passerà ormai, almeno fino a quando la malattia non verrà debellata?
La nostra terra, l’unica che abbiamo, ha richiesto la nostra attenzione: si è sentita soffocare, abbiamo evidentemente pensato che fosse solo un po’ d’ansia. Col tempo la febbre è salita, ma suvvia sarà stato un male stagionale, capita a tutti una febbricola ogni tanto, poi passa. La nostra terra ha pianto, a lungo, lacrime così copiose da allagare intere città, da muovere montagne. Alle lacrime non tutti restano indifferenti, è vero. Ma quando torna il sereno le lacrime si asciugano e ci si dimentica di loro in fretta. È capitato anche che smettesse di piangere, per lungo tempo, ma anche questo silenzio assordante non è bastato a risvegliare le coscienze. Niente di tutto ciò è servito affinché ci domandassimo in modo consapevole e responsabile quale fosse il problema. Qualcuno in verità ha provato ad alzare la voce, qualcuno ha cercato di avvisarci che forse questi sintomi nascondevano un malessere reale. Ma nulla può contro il disinteresse, l’ignoranza, la semplicità di ragionamento. Nemmeno l’evidenza. Così per tutti noi è stato più semplice continuare per la propria strada, perpetrando nelle proprie abitudini, preferendo credere che “quelli sono mossi dai poteri forti” o più ragionevolmente “non sarò certo io che cambierò le sorti del mondo, sarei solo una piccola goccia nel mare”.
Abbiamo chiuso gli occhi di fronte alle foreste in fiamme, dimenticato i venti che hanno sradicato foreste centenarie, imparato a nuotare in prospettiva dei mari che ci sommergeranno e posato, paradossalmente, enormi coperte sopra i ghiacciai per preservarli dallo scioglimento. Abbiamo fatto in modo che la voce della Terra non raggiungesse le nostre coscienze, sapendo che il messaggio che voleva consegnarci era solo uno, tanto semplice quanto difficile da accettare: cambiare le nostre vite, le priorità, le abitudini, sarà l’unico modo per salvarla, per salvarci.
Poi una mattina ci siamo svegliati ritrovandoci ammalati noi stessi. Forse un modo per dirci di ascoltarla, infine, la Terra l’ha trovato. Voleva semplicemente dirci che, in fin dei conti, i parassiti siamo noi. Avremmo potuto seguire un’altra strada, da organismi simbionti quali siamo avremmo potuto instaurare un rapporto mutualistico, ma quest’ipotesi non sarebbe nemmeno lontanamente realisticamente percorribile. Ma forse, se ci fossimo comportati da commensali, ora non saremmo qui a parlarne. Invece abbiamo deciso di essere parassiti. Abbiamo preferito sfruttare a nostro vantaggio tutto ciò che il nostro ospite, la Terra, aveva da offrirci, dimenticando che la sopravvivenza stessa del parassita è intimamente dipendente dalle condizioni dell’ospite.
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